SINCE MILLEQUATTROCENTONOVANTADUE

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COM'ERA L'ITALIA AL TEMPO DELLA "SCOPERTA" DELLE INDIE ORIENTALI




Mentre nel 1492 Colombo scopriva l’America,con molta fortuna e poca coscienza della reale portata della sua scoperta,nell’America del sud arrivava al massimo dello splendore la civiltà Inca.



Sotto la guida del grande re Inca Huayna Capac,gli Inca arrivarono a controllare la zona che andava grosso modo da Quito,in Equador,fino ad Atcama,in Perù.

Era il punto massimo che avrebbero raggiunto,perché alla morte del grande re,i suoi due figli,Atahualpa e Huascar,in totale disaccordo sulla spartizione del potere,presero a farsi la guerra.

Dalla quale uscì vittorioso Atahualpa,che sembrò padrone del campo.



E lo sarebbe stato se non fosse accaduto quello che era stato profetizzato in passato,cioè l’arrivo di uomini bianchi con la barba,dal mare,che cavalcavano strani cervi,come riportato dagli esploratori che per primi presero contatto con gli uomini bianchi. Erano i conquistadores di Pizzarro,poco più di 180 uomini,perfettamente equipaggiati:gente senza scrupoli,giunti in SudAmerica alla ricerca di oro e terre da conquistare.



Atahualpa avrebbe potuto facilmente frenare la piccola armata,e probabilmente distruggerla con poco;i suoi esploratori inviarono dispacci con i quali raccontavano come quelli che avevano di fronte fossero uomini straordinari,si,ma pur sempre uomini;mangiavano e bevevano come uomini,avevano delle armi terribili,che lanciavano il tuono,ma che avevano bisogno di molto tempo per ricaricarsi;in quanto ai cervi,che altro non erano che cavalli,animali sconosciuti ai popoli del Sud America,di notte non vedevano e di giorno,separati da coloro che li cavalcavano,erano perfettamente inutili.



Atahualpa commise così il primo dei tre errori fatali,che avrebbero potuto dare una svolta alla storia;invece di attaccare,ordinò che gli spagnoli fossero lasciati liberi di raggiungerlo.

Sicuramente influì la leggenda che voleva il ritorno del Dio Quetzacoatl,raffigurato dagli inca come un uomo di pelle bianca e con la barba,che aveva annunciato il suo ritorno alla guida di molti altri uomini bianchi,così come influì,nella decisione del re,il desiderio di conoscere da vicino quegli uomini con le loro strane cavalcature;e forse influì,in maniera determinante,la paura e la sovrastima della loro potenza militare,in realtà molto ma molto inferiore al previsto.

Siamo nel 1533,e l’incontro tra i due uomini,appartenenti a due culture così differenti,avviene tra sospetti e paure;nelle cronache di Garcilaso de Vega,è raccontato un aneddoto,che ricorda come un sacerdote cattolico abbia mostrato al re una Bibbia,dicendo che la dentro c’era la parola di Dio.



Atahualpa avvicinò il libro all’orecchio,poi,irato scaraventò il libro per terra,dicendo testualmente:”qui dentro non c’è nulla”.

Pizarro,dopo poco,ruppe gli indugi.

Aveva attraversato l’oceano per conquistare terre e oro,e li,aveva sotto mano la gloria e la ricchezza.

Fece prigioniero il re inca,e,approfittando delle divisioni esistenti all’interno della nobiltà inca,parte della quale ancora fedele a Huascar,assunse la carica di governatore del regno Inca.



Atahualpa fu incarcerato,e fece il secondo errore che gli costò in seguito la vita.

Tentò di barattare la sua libertà con dell’oro.

Promise all’avido capitano,”tanto oro da riempire la stanza dove era prigioniero,fino all’altezza dove poteva giungere il braccio”

Pizarro accettò,e così nobili inca furono ìnviati verso l’interno per raccogliere dai sudditi dell’imperatore gioielli,oro e argento per il riscatto.



In poco tempo una mole impressionante di oro e argento giunse nella reggia di Atahualpa;ma solo una parte,quella concordata con il crudele conquistadores,venne accumulata nella stanza dove era prigioniero il re.

Molto più della metà dell’oro raccolto fu prudentemente tenuta in disparte dai sacerdoti.



5500 chili d’oro,15.000 chili d’argento vennero così accatastati ai piedi di Pizarro.

Che mostrò immediatamente la tempra di cui era fatto.

Lungi dal liberare il re,lo condannò a morte.

Atahualpa affrontò con dignità il suo destino;chiese soltanto di non essere bruciato sul rogo.

Secondo il credo inca,un corpo bruciato avrebbe vagato senza meta per l’eternità.

Pizarro acconsentì in cambio della promessa da parte del re di un suo battesimo.

Così Atahualpa si convertì alla religione cristiana, venne strangolato invece che bruciato sul rogo.



Era il 1533,e di fatto la civiltà inca cessò di colpo.



Pisarro cercò di impadronirsi dell’altra parte dell’oro raccolto,ma per quanto torturasse,per quanto uccidesse,non riuscì più a mettere le mani sul tesoro degli inca.

Che lo nascosero nella foresta,in modo così perfetto da rendere le tracce assolutamente introvabili.

Nacque così ala leggenda dell’oro di Atahualpa,che venne cercato un po’ dappertutto,ma senza alcun esito

Una leggenda con fondamenta storiche,che coinvolse ricercatori e studiosi,avventurieri,che esplorarono la giungla.

Ma che nasconde,ancora oggi,le sue tracce e che sfugge ad ogni tentativo di ritrovamento.

I GENOCIDI APPROVATI DALLA CHIESA CATTOLICA
LA STORIA E’ SEMPRE SCRITTA DAI VINCITORI


Durante le ricerche effettuate in merito alle vere origini del cristianesimo e alla storia della Chiesa cattolica, lo studioso si imbatte spesso in storie di “ordinaria follia”. Quello che i testi di storia riportano, e cercano di insegnare agli studenti, sono solo notizie frammentarie, per lo più redatte dai consueti vincitori. Il vero problema è che tutto quello che si cela sotto questa pseudo – verità, è in realtà la parte più autentica e consistente del nostro retroterra storico. Sebbene l’omertà sia un vizio piuttosto diffuso, spesso, una voce fuori dal coro, riesce a destabilizzare tutto il costrutto teorico di secoli di verità celate.

Dopo che Cristoforo Colombo, nel 1492, fece la scoperta del nuovo continente, l’evoluzione storica dell’Europa ebbe un’improvvisa svolta: la brama di conquista, di nuove terre, di tesori nascosti, fece presa sulla maggioranza delle più importanti figure dell’epoca, Papa compreso.

Fu proprio il pontefice Alessandro VI Borgia che, con la bolla “Inter Caetera”, suddivise l’intero globo tra le principali potenze coloniali europee (principalmente spagnoli e portoghesi).

Ed è proprio dalla fine del XV secolo che iniziarono i guai per i popoli dell’America Latina. Lo stesso Cristoforo Colombo (come ci riferiscono cronisti dell’epoca) sognava di poter armare una nuova crociata in Terra Santa con l’oro “delle Indie”. C’è anche da dire che, quando lo stesso Colombo sbarcò a Cuba, i suoi abitanti erano circa otto milioni. Quattro anni dopo, grazie alla politica colonialistica europea, avallata e benedetta dai pontefici di turno, la popolazione dell’isola caraibica era scesa a poco meno della metà.

L’opera di conquista e sfruttamento del nuovo continente passava attraverso lo sterminio indiscriminato delle popolazioni autoctone, condotta dai conquistadores, sotto l’egida dei reali di Spagna e della fede cattolica. Tali condottieri avevano sempre al loro fianco dei “bravi sacerdoti”.

Hernando Cortez, Francisco Pizarro, Hernando De Soto, Pedro De Alvarado e molti molti altri, forti della schiacciante superiorità tecnologica e militare di cui erano in possesso, annientarono fiorenti civiltà come quella Maya, quella Inca e quella Azteca. Tale evento passò attraverso lo sterminio di milioni di persone.

Nei “Racconti aztechi della conquista”, raccolti da dei francescani, viene esplicitamente espresso che, sin dall’inizio, il massacro dei nativi americani, fu “benedetto da Dio”. Lo stesso Cortés era appoggiato dallo Stato pontificio: “questa era la volontà del Papa che aveva dato il suo assenso alla loro venuta”.

La conquista auspicata da Dio, e agita dai vari conquistadores, come detto poco prima, portò ad un vero e proprio genocidio: in Messico, in poco più di un secolo (1520 – metà del ‘600), la popolazione passò da 12 milioni di abitanti, a meno di un milione e trecentomila persone (il 90% della popolazione era stato sterminato); agli inizi del ‘500 i nativi del continente centro – sud americano erano all’incirca 70 milioni di persone. Alla metà del ‘600 erano ridotti a 7 milioni.

I racconti sulle atrocità dei conquistadores ci sono pervenuti grazie all’opera di alcuni missionari, anche se alle volte erano gli stessi “massacratori” che inviavano ai propri reggenti, dei resoconti dettagliati sulle procedure adottate: e nessuno ebbe mai a lamentarsi, né i reali di Spagna, tanto meno lo Stato Pontificio.

Le atrocità perpetrate contro gli indios sono state qualcosa di talmente crudele ed inumano che risulta difficile anche solo immaginare come un uomo possa compiere certi gesti con una tale efferatezza, senza subire alcuna condanna da parte della gerarchia ecclesiastica, e senza dover rispondere ad alcun tribunale costituito.


Continua…



Riferimenti bibliografici:

- J. Fo, S. Tomat, L. Malucelli: “Il libro nero del cristianesimo”

- Tzvetan Todorov: “La conquista dell’America. Il problema dell’ “altro”

- David E. Standard: “Olocausto americano: la conquista del nuovo mondo”

- T. Todorov, G. Baudot: “Racconti aztechi della conquista”

- Charles Fair: “Storia della stupidità militare”


I GENOCIDI APPROVATI DALLA CHIESA CATTOLICA
UN GENOCIDIO LEGALIZZATO
PARTE II


La conquista del Nuovo Continente, ad opera di persone senza scrupoli e votate alla distruzione indiscriminata, oltre all’appoggio incondizionato della Chiesa cattolica, aveva una base, per così dire, “legale”: il REQUERIMIENTO.
Si trattava di un documento che i conquistadores leggevano, rigorosamente in spagnolo, a coloro che stavano per essere sottomessi, prima dei massacri sommari.
La figura centrale di questo documento, paradossalmente, era Cristo, considerato “capo della stirpe umana”. Gesù donò il potere a Pietro (e anche qui ci sarebbe da discutere!), e questi ai suoi successori: i vescovi di Roma. Uno di questi pontefici, il ben noto Alessandro VI Borgia, donò il continente americano agli spagnoli, dichiarati quindi “legittimi dominatori”.
Le conseguenze furono tragiche, in termini di vite umane, di sviluppo economico e sociale!!

“Con ciò garantisco e giuro che, con l’aiuto di Dio e con la nostra forza, penetreremo nella vostra terra e condurremo guerra contro di voi…per sottomettervi al giogo e al potere della Santa Chiesa…infliggendovi ogni danno possibile e di cui siamo capaci, come si conviene a vassalli ostinati e ribelli che non riconoscono il loro Signore e non vogliono ubbidire, bensì a lui contrapporsi…” (tratto dal documento “Requerimiento”)

Le testimonianze degli storici, i racconti dell’epoca ed i documenti ufficiali relativi alla conquista del nuovo mondo, narrano di eventi di inaudita ferocia e crudeltà, dove il rispetto per gli esseri umani, uomini, donne o bambini che fossero, era inesistente. Solo l’accecante brama di conquista, ricchezza e potere spingeva i colonizzatori a degli atti efferati, dei veri e propri “crimini contro l’umanità”.

“Agli spagnoli piacque escogitare ogni sorta di inaudita atrocità…Costruirono pure larghe forche, in modo tale che i piedi toccassero appena il terreno (onde evitare il soffocamento), ed appesero – ad onore del redentore e dei dodici apostoli – ad ognuna di esse, gruppi di tredici indios, mettendovi sotto legna e braci e bruciandoli vivi” (tratto da una testimonianza dell’epoca – in bibliografia).


In altre situazioni gli spagnoli inventarono altre “piacevolezze”:

“Spesso staccavano ad uno un braccio, ad altri una gamba o una coscia, per troncare di colpo la testa a qualcun altro, non diversamente da un macellaio che squarta le pecore per il marcato”

Vasco de Balboa ne fece sbranare quaranta dai cani affamati!!
Spesso e volentieri le uccisioni degli indios non erano che un atto di pura ed immotivata crudeltà:

“Alcuni ‘cristiani’ incontrarono un’indiana con un neonato tra le braccia, a cui stava dando il latte; il cane che li accompagnava era affamato. Questi ‘uomini’ strapparono il bambino dalle braccia della madre e lo gettarono vivo in pasto al cane che, sotto i suoi occhi, lo fece a pezzi. Altre volte, se capitava che un neonato piangesse, gli stessi ‘cristiani’, prendevano la piccola creatura per le gambe e lo sbattevano contro le rocce”

Le atrocità commesse dalla “civiltà” colonizzatrice degli spagnoli sembravano essere la risultante dello sfogo ad ogni più macabra fantasia. Agli indios venivano amputate mani, piedi, naso, orecchie, genitali, mammelle, lingua.
Ad un enorme albero, sui cui rami erano state impiccate un gran numero di indiane, lo scempio era stato completato appendendo alle loro caviglie, per la gola, i loro figli piccoli.
La storia ci insegna, al di là di ogni possibile controversia, che questa è stata la civiltà portata dai colonizzatori, i famosi conquistadores.


Riferimenti bibliografici:
- Tzvetan Todorov: “La conquista dell’America. Il problema dell’altro”
- David Stannard: “Olocausto americano: la conquista del nuovo mondo”
- T. Todorov, G. Baudat: “Racconti aztechi della conquista”

I CRIMINI DELLA CHIESA

giovedì 11 marzo 2010


IL MOVIMENTO PER L'EMANCIPAZIONE FEMMINILE
dalle origini alla fine dell'Ottocento


( di PAOLA MOCCHI )

< < ( VEDI ANCHE: I COSTUMI SESSUALI NELL'ITALIA DEL '900 )

OPERAIE E NOBILDONNE FIANCO A FIANCO
PER L'EMANCIPAZIONE
Grande vittoria nel 1893: la Nuova Zelanda è il primo Paese del mondo che ammette al voto l'altra metà del cielo

donne al lavoro in fabbrica

 
 

La corsa alla conquista dei diritti femminili favorita dalla rivoluzione francese e a cui l'illuminismo aveva fornito un'inesauribile riserva di strumenti intellettuali, venne violentemente arrestata, nel 1804, dall'emanazione del codice di Napoleone che diede corpo all'idea che la donna fosse proprietà dell'uomo e il suo compito primario quello di restare relegata in casa. 

Portalis, uno dei preparatori del codice, in base al solito principio della legge di natura che, secondo lui, relega le donne in una condizione di inferiorità, sostenne che "Non è quindi in una nostra ingiustizia, ma nella loro naturale vocazione, che le donne devono cercare il principio dei più austeri doveri che sono imposti a loro maggior beneficio e a profitto della società". E nella prima metà dell'800 il movimento per l'emancipazione che si era via via allargato fino a coinvolgere le classi meno privilegiate, si ritirò, tornando ad essere appannaggio di un'élite politica e culturale.

Alla lotta veniva fornita
una matrice a volte marcatamente socialista, secondo le più diffuse teorie del dibattito filosofico in corso, altre volte di tipo nazionale e democratica, secondo le aspirazioni degli stati europei a partire dagli anni '20. In Italia troviamo Bianca Milesi, soprannominata dal Cattaneo 'l'emancipata Milesi'; essa, dopo aver studiato in Austria e Svizzera, tornò nel suo paese natio, diffuse le innovative tecniche educative che aveva appreso, e creò scuole popolari di mutuo insegnamento, dando vita anche ad una sezione femminile della carboneria per la diffusione delle idee mazziniane. Tra le sue discepole predilette c'era Cristina Trivulzio principessa di Belgiojoso la quale fu una vera e propria riformatrice sociale e promotrice, ovunque si recasse, della causa dell'unità nazionale secondo le idee repubblicane di Mazzini e sociali di Saint Simon. 

Nel 1849, durante l'assedio di Roma, sollecitata da Mazzini, lei, colta, ricca e aristocratica, mise insieme un gruppo di "scostumate" popolane e organizzò il pronto soccorso e il servizio ospedaliero per i feriti. Di queste nobildonne che aprivano i loro salotti a patrioti, letterati ed artisti permettendo la circolazione e lo sviluppo delle idee e che si dedicarono in particolar modo alla causa dell'elevazione culturale della donna, creando asili, circoli, scuole innovative, ve ne sono tantissime. Ricordiamo Matilde Calandrini in Toscana, Emilia Peruzzi a Roma, la quale tra l'altro indusse il marito, deputato del primo parlamento italiano, a presentare un progetto di legge a favore delle donne, e Laura Mantegazza e Clara Maffei a Milano:

"Nel piccolo appartamento
in via Bigli, dove la contessa Maffei riceveva ogni sera, si incontravano persone serie, vecchi patrioti, uomini di studio e di bella fama, ma vi intervenivano anche signore del mondo elegante, artisti, giovani che vedremo poi nel 1859 varcare il Ticino e arruolarsi tra i volontari. Nelle serate in casa della contessa si discorreva piacevolmente di cose serie e di cose liete, si discorreva di politica, di letteratura, d'arte, e dei fatterelli cittadini; si scherzava e si rideva, ma l'intonazione generale era sempre altamente patriottica. La contessa Maffei, di natura indulgente e mite, diventava fiera e intransigente ogni volta che fosse in questione il Governo straniero. Si pensi con quanto entusiasmo essa e i suoi amici prendessero parte, in quell'inverno del 1858, alla lotta contro l'arciduca Massimiliano (d'Asburgo, ndr) che ferveva nella società milanese...". 

Tra gli ospiti più rinomati di casa Maffei vi erano Giuseppe Verdi, che confidava spesso i suoi pensieri alla contessa la quale possedeva la virtù rara e preziosa di serbare i segreti, e Balzac che "rimase incantato dalla piccola Maffei e non tardò a provarne un'amicizia dolce, tenera che si confondeva con l'affetto... Egli voleva essere sempre aiutato dalla parola consolatrice della donna gentile, dalla sua stretta di mano, dal suo sorriso. La poesia dei suoi ideali strideva, peraltro, un po' troppo nel confronto della prosa del suo corpo pesante col quale sfondava le poltrone del salotto Maffei... A lui avvezzo a Parigi, non piaceva Milano; si mostrava querulo, rannuvolato, solo il prestigio della Maffei... aveva il potere di ridestarlo dalla tetraggine" (M.I. Palazzolo, I salotti di cultura nell'Italia dell'800, pp. 91, 109). 

Intanto in America, nella seconda metà del XVIII secolo, assistiamo a decise ma individuali azioni di impronta femminista, come quella di Abigail Adams che nel 1776 chiese ad un membro del Congresso di tenere conto, nel nuovo Codice delle leggi, i diritti delle donne: naturalmente non venne ascoltata.

Nel 1843 veniva redatto
il primo vero e proprio manifesto femminista americano da parte di Margaret Fuller. Il manifesto fu pubblicato dapprima come saggio dal titolo L'uomo contro gli uomini - La donna contro le donne, all'interno della rivista The dial. Ma nel 1845 fu rielaborato e apparve col titolo La donna nel XIX secolo

Verso la metà del secolo, smorzatosi l'ondata maschilista che aveva messo a tacere le speranze nate con la rivoluzione, il femminismo si rianimò, uscì definitivamente dai salotti, passò dalle elaborazioni teoriche individuali ad un'organizzazione più solida. I giornali fondati e diretti da sole donne si moltiplicarono e divennero tanto più importanti quanto più dietro di essi prendeva corpo un'associazione femminile. 

Nel 1832 in Francia, Desirée Verret e Marie-Reine Guindorf fondarono la La femme libre espressione del femminismo sansimoniano della classe operaia, che invitava tutte le donne, pagane e cristiane, a collaborare. In seguito il giornale fu preso sotto la direzione di Suzanne Voilquin, un'operaia ricamatrice di Parigi che, ottenuta la separazione dal marito, prese a viaggiare e riuscì a studiare travestendosi da uomo. Essa cambiò sia il nome del giornale con quello di La Tribune des Femmes, sia impostazione, avvicinandosi di più alle dottrine fourieriste. Famose sono rimaste le battaglie de La Tribune a favore dell'indipendenza delle colonie e contro la prostituzione, quelle per l'indipendenza economica delle donne, per l'educazione e la formazione paritaria a quella dell'uomo e il libero amore.

Le collaboratrici si firmavano
con il solo nome di battesimo per restare nell'anonimato, ma anche per rifiutare il cognome del marito, simbolo della prepotenza maschilista. Nel 1834 la repressione politica mise fine a quest'esperienza editoriale. La Gazette des Femmes invece dava voce alle aspirazioni delle donne della borghesia, che come contribuenti, esse sostenevano, dovevano beneficiare degli stessi diritti politici e civili. Erano tre le direzioni i cui si muoveva la propaganda del giornale: il diritto di petizione, per concedere alle donne un'esistenza legale, il diritto ad essere sostenute in tutte le iniziative da loro intraprese e il diritto a che venissero condannati tutti i delitti perpetrati contro di esse. Altro giornale importante fu Le Journal des Femmes, di ispirazione borghese-cristiana diretto da Fanny Richomme, che contro le teorie sansimoniane, ma anche contro l'ideale di donna austera auspicata dalla Chiesa, sosteneva la teoria del giusto mezzo, promuovendo l'immagine di una donna 'umana' con il diritto ad essere educata, di divorziare, di rifiutarsi di sottostare a matrimoni combinati.

Dopo il 1848, con la seconda repubblica, il femminismo francese acquisì nuovo slancio e si può definire a tutti i diritti di tipo socialista, caratterizzato com'era dalla lotta per il miglioramento delle condizioni materiali e della propaganda delle idee. I più famosi giornali femministi di questo periodo furono La Voix des Femmes che esprimeva il suo slogan in questi termini: una nuova concezione dell'esistenza implica una rivoluzione per tutti e per tutte, e La Politique des Femmes, che assumerà la guida del movimento femminista. Nel giugno del '48 ci fu una sanguinosa repressione che censurò tutti giornali femministi, ma appena un anno dopo L'Opinion des Femmes denunciò tutti i soprusi subiti.

Era tra l'altro questo
il periodo in cui scrittori e disegnatori famosi si dilettavano nell'arte della derisione del personaggio della femminista. Flaubert con il romanzo L'educazione sentimentale la mise alla berlina con non poca cattiveria mentre Honoré Daumier e Paul Gavarni le dedicarono sarcastiche caricature, esprimendo in questo modo il disagio di chi, non sapendo né rinunciare ad una posizione da sempre assimilata, né come porsi di fronte agli assalti al proprio secolare predominio, risolveva il problema con una risata. 
Nel 1849 abbiamo la fondazione di una rivista femminista tedesca Frauen Zeitung ad opera di Louise Otto. La redazione del giornale assunse un'importanza cruciale perché divenne il punto di incontro delle femministe tedesche, ma fu soppresso nel '52 perché nelle associazioni politiche era stato vietato introdurre le donne. Nel '65 la Otto insieme a delle collaboratrici fondò "L'Unione generale delle donne tedesche" arrogandosi il diritto di parlare e organizzarsi pubblicamente; l'"Unione", perseguendo l'autonomia e il self-help femminile, durò fino all'avvento del nazismo. Nel '59 in Inghilterra l'Englishwoman's Journal la cui redazione divenne sede di molti dei più importanti gruppi femministi inglesi, si batté a lungo per il miglioramento dell'educazione delle ragazze. Ma più interessante è dare uno sguardo al femminismo di matrice protestante che nacque in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo.

Un vigoroso impulso
a questo femminismo lo diede il movimento antischiavista promosso a Boston dal giornalista calvinista William Lloyd George che fece appello alla sensibilità femminile perché prendesse a cuore la causa per la liberazione delle donne di colore. L'appello arrivò in un momento storico propizio, quando cioè schiere di donne nel mondo occidentale scalpitavano perché venisse loro offerta l'occasione giusta, anzi, un'occasione qualunque, per poter dare voce alle proprie rivendicazioni: in pochissimo tempo vennero fondati tre gruppi antischiavisti femminili protestanti in cui operavano all'unisono donne nere e donne bianche. 
Davanti alle chiese e in mezzo alle piazze queste donne protestavano e indottrinavano gli ascoltatori sulle ingiustizie perpetrate ai danni delle popolazioni di colore con il benestare della chiesa. L'azione dei pastori protestanti non tardò a farsi sentire e per mezzo di una lettera pastorale, con l'ausilio di citazioni tratte dal Nuovo Testamento, si avvertirono le donne di non occuparsi di affari pubblici. Ma queste prontamente risposero per bocca di Angelina Grimké: "Non è soltanto la causa degli schiavi che noi difendiamo, ma quella della donna come essere morale e responsabile". 

Detto fatto, e nel 1838 la sorella di Angelina, Sarah, pubblicò il primo manifesto del femminismo protestante contemporaneo, Letters on the Equality of the Sexes, and the Condition of Woman. Ricordiamo che queste donne erano ferventi cristiane e nella loro azione contavano sull'appoggio di Dio. Proprio per questa ragione esse cominciarono a portare avanti un attento studio sulla Bibbia, una vera e propria esegesi biblica femminile, per riscontrare nella Sacra Scrittura tutti i punti in cui veniva ribadito il principio che entrambi i sessi hanno stessi diritti e stessi doveri. Il motto più famoso del femminismo protestante del XIX secolo rimarrà questo: "Pregate Dio, Esso vi esaudirà".

Da questo movimento
prenderanno corpo tutta una serie di opere sociali finalizzate al recupero delle prostitute, delle carcerate e degli ospedalizzati. Tornando in Francia, è la rivoluzione del 1871 che instaurò la "Comune" di Parigi, l'altra occasione offerta alle donne per rinsaldare il loro spirito di corpo; Louise Michel, Léodile Champseix, Paule Minck scrivevano sui giornali e viaggiavano di città in città per parlare dell'importanza di difendere la Comune: "Se Parigi cade - dichiaravano - il giogo della miseria vi resterà sul collo e passerà sulla testa dei vostri figli... La terra al contadino, l'arnese all'operaio, il lavoro a tutti". 

L'11 aprile un gruppo di donne, tra cui Nathalie Lemel, creò l'"Unione delle donne". Formato in prevalenza da operaie, l'"Unione" si prefiggeva compiti di tipo assistenziali e, costituendo in ogni quartiere circoli e club, dava a tutte le donne la possibilità di esprimersi liberamente sui problemi che le tormentavano. Ma, solo dopo pochi mesi, le truppe di Thiers, diedero inizio ad una vera e propria guerra contro i rivoluzionari per riprendersi il potere. 
Nemmeno in questo momento le donne rinunciarono all'azione e, se da una parte imbracciarono i fucili come la Michel, dall'altra portarono avanti una poderosa opera di propaganda per sostenere gli animi: il 6 aprile del '71 comparvero su tutti i muri di Parigi mille manifestini dell'"Unione delle donne" che recitavano così: "In nome della rivoluzione sociale che acclamiamo, in nome della rivendicazione dei diritti al lavoro, all'uguaglianza e alla giustizia, l'"Unione delle donne" per la difesa di Parigi e per i soccorsi ai feriti protesta con tutte le sue forze contro l'indegno proclama alle cittadine apparso l'altro ieri a cura di un gruppo anonimo di reazionarie.

Il suddetto proclama
invita le donne di Parigi ad appellarsi alla generosità di Versailles e a chiedere la pace a qualsiasi prezzo. La generosità di vili assassini! Una cooperazione tra libertà e dispotismo, tra il popolo e i suoi boia! No, non è la pace, ma la guerra a oltranza che i lavoratori di Parigi reclamano! Oggi una conciliazione sarebbe un tradimento!... Sarebbe rinnegare tutte le aspirazioni operaie che hanno acclamato la rivoluzione sociale assoluta, l'annientamento di tutti i rapporti giuridici e sociali ora esistenti, la soppressione di tutti i privilegi, di ogni genere di sfruttamento, la sostituzione del regno del lavoro con quello del capitale, in una parola la liberazione del lavoratore da parte del lavoratore!... Unite e risolute, cresciute e illuminate dalle sofferenze che seguono sempre le crisi sociali, profondamente convinte che la Comune, testimonianza dei principi internazionali e rivoluzionari dei popoli, porti in se stessa i germi della rivoluzione sociale, le donne di Parigi proveranno alla Francia e al mondo che anch'esse, nel momento del pericolo supremo - sulle barricate, sulle mura di Parigi, qualora la reazione forzasse le porte - sapranno donare come i loro fratelli il sangue e la vita per la difesa e il trionfo della Comune, cioè del Popolo!" A tali parole il capitano Jouenne, nella requisitoria durante il processo contro le 'incendiarie', rispose: 

"L'orribile campagna cominciata il 18 marzo scorso contro la civiltà... doveva portare davanti a voi non solo gli uomini dimentichi dei loro doveri più sacri, ma anche, ahimè! delle creature indegne che sembrano aver assunto l'impegno di essere l'obbrobrio del proprio sesso e di ripudiare il ruolo immenso e magnifico della donna... Ecco dove conducono tutte le pericolose utopie! L'emancipazione della donna predicata da dottori che non sapevano quale potere fosse loro dato esercitare e che, nei momenti della sommossa e della rivoluzione, volevano arruolarsi come ausiliari. Non si è fatto di tutto per tentare queste miserabili creature, facendo scintillare dinanzi ai loro occhi le più incredibili chimere? Delle donne avvocato! Magistrato! Membro del foro! Sì, deputato forse! E chi sa? Comandanti! Generali d'armata!". 

Il femminismo che scaturì in seguito all'esperienza della Comune fu di tipo liberale, sulla scia di quello inglese imperniato sul principio: "chi non è rappresentato in parlamento non paga le tasse" e fu interpretato dal giornale repubblicano La Fronde di Marguerite Durand. La Fronde, tra l'altro, aprì un ufficio gratuito di collocamento e una delle sue più importanti collaboratrici, Caroline Rémy, fu la prima donna giornalista a vivere del proprio lavoro. In Italia nella seconda metà del XIX secolo vi fu un risveglio in senso femminista. A differenza della Francia, erano soprattutto le intellettuali borghesi che si impegnavano in campo sociale e con la loro opera costituivano movimenti di sensibilizzazione.

Alessandrina Ravizza nel 1868
si introdusse nella "Associazione generale di mutuo soccorso delle operaie di Milano" e fondò, in insieme a Laura Mantegazza, le scuole professionali femminili. 
Nel 1879 costituì la cucina per ammalati poveri a cui si aggiunse, grazie anche ad Anna Kuliscioff, un ambulatorio medico ed un magazzino cooperativo benefico che doveva offrire lavoro e generi alimentari a basso prezzo. 
Ben presto la Ravizza si accostò a gruppi di femministe impegnandosi in una serie di iniziative di opposizione ai tentativi reazionari di fine secolo. Come la Ravizza, le femministe italiane di fine secolo erano perlopiù donne senza figli, animate da ideali romantici e populisti, vicine agli ambienti socialisti e anarchici. Come lo fu Sibilla Aleramo, al secolo Rina Faccio. Di formazione positivista, perseguiva l'ideale di un socialismo unitario e interclassista e si impegnò in particolar modo per l'alfabetizzazione della popolazione. 

Parallelamente al femminismo di ispirazione socialista se ne sviluppò uno di ispirazione cattolica che si differenziava dal primo per i motivi ispiratori: mentre quello socialista rivendicava parità giuridica economica e sociale, l'altro riconosceva una comune vocazione soprannaturale dell'uomo e della donna e cioè una uguale partecipazione alla missione della Chiesa nel mondo. 
Luisa Anzoletti si batté a lungo per contrastare il tipo di educazione frivola e superficiale riservata alle donne e proponeva l'immagine della donna forte della Bibbia che si impegna in prima persona per il progresso civile. I mensili Azione muliebre e La donna del popolo, si proponevano la diffusione di queste stesse idee. 
Risulta chiaro che era principalmente il problema dell'educazione che stava a cuore e sollecitava le varie iniziative: verso la fine del secolo l'immagine della donna istitutrice che riesce a mantenersi da sola, era diventata una specie di immagine femminista ideale.

Ma anche la donna nubile,
cittadina, viaggiatrice e colta costituiva un modello altrettanto idealizzato. Christabel Pankhurst dichiarò che il nubilato per lei assumeva un significato politico, una chiara scelta contro la schiavitù sessuale. Ricordiamo che le rivendicazioni sessuali femministe, cioè quelle che riguardano specificamente il corpo, presero piede solo nell'ultimo quarto del XIX secolo. Prima di allora una specie di pudore o di convenienza sociale aveva fatto sì che ci si fermasse a rivendicare diritti in materia di divorzio e matrimonio. Ed è solo al volgere del nuovo secolo che le proteste contro gli abusi sessuali si scatenarono con violenza, in special modo in Inghilterra e in America dove i progressi giuridici sulla proprietà, sul divorzio, l'educazione e il voto erano maggiori.

Due tra le femministe ottocentesche nostrane che hanno segnato un'epoca, sono Anna Maria Mozzoni e la già citata Anna Kuliscioff. La Mozzoni, donna di grande cultura, apprese le tesi socialiste di Saint-Simon e Fourier e condivideva l'atteggiamento critico di Cattaneo nei confronti della soluzione piemontese data al problema dell'unità d'Italia. Secondo la Mozzoni le cittadine lombarde con l'annessione al Piemonte, erano regredite socialmente. Nel 1868 fondò la rivista cosmopolita La donna, nel 1881 aderì al partito operaio indipendente e insieme alla Kuliscioff costituì la "Lega per la promozione degli interessi femminili".
Partecipò alla formazione del partito socialista ma non vi aderì, con grande rammarico della Kuliscioff che non glielo perdonò mai. 
Quest'ultima, proveniente dalla Russia, laureata in medicina e di cultura marxista, era più attenta agli aspetti storici delle questioni sociali. Portò avanti un serrato lavoro redazionale che culminò con la creazione della Rivista Internazionale del Socialismo nel 1881. Il suo impegno è contenuto e spiegato nella sua più famosa conferenza tenuta a Milano il 27 aprile 1890 dal titolo "Il monopolio dell'uomo". Fu soprannominata la 'dottora dei poveri' per il suo impegno a favore di tutte le donne operaie e contadine umiliate senza fine 'con 'martirio ignoto'. 
In La Mozzoni, la Kuliscioff e tante altre, Ludi Cavalli parla di due poli della lotta della donna, in Italia, alla fine del secolo scorso: le istanze del femminismo, rappresentate dalla Mozzoni e la questione sociale, di cui è maggiore esponente la Kuliscioff. Per la prima infatti la democrazia non avrebbe apportato nulla se non si fosse risolto il problema della donna, mentre per la seconda prioritario rimase sempre il problema del proletariato femminile e quindi il socialismo. 
Comunque sia è da sottolineare che né il movimento socialista né quello marxista fecero propria la causa femminista in modo spontaneo. I teorici del marxismo sposarono la causa dell'emancipazione femminile grazie all'opera lunga e faticosa di femministe come Clara Zetkin, la quale riuscì a fare adottare, ma senza un grande impegno, lo slogan 'uguale salario ad uguale lavoro'. 
Nella II Internazionale socialista infatti, e ancora meno nella I, le richieste femminili furono totalmente ignorate o trattate con superficialità. Nel 1870 intanto a Ginevra si era tenuto il primo congresso internazionale delle donne in cui si era discusso prioritariamente dell'inutilità del conflitto franco-prussiano allora in corso e naturalmente dell'ingiusta discriminazione sessista.

Nel '78 a Parigi si tenne
un altro congresso internazionale a cui parteciparono francesi, tedesche italiane, svedesi, russe e polacche e inglesi, le più agguerrite, che alla guida di Josephine Butler stavano combattendo la battaglia contro la prostituzione legalizzata. La Butler si batteva contro il controllo amministrativo e medico delle prostitute, sostenendo che tale controllo costituiva un 'sacrificio delle libertà femminili' alla 'schiavitù del desiderio maschile' e nei comizi indugiava a descrivere nei dettagli lo 'stupro meccanico della visita ginecologica'. La regolamentazione, secondo le femministe, proteggeva e autorizzava il vizio maschile e non risolveva il problema delle prostitute spesso spinte sulla strada dal sistematico sfruttamento sociale ed economico imposto dallo stato a tutte le donne. 
La Butler propugnava allora un'opera di recupero di queste donne, ma sempre riconoscendo loro una fondamentale libertà di gestire la propria vita. L'entusiasmo della Butler trascinò molti altri paesi europei nella lotta per l'abolizionismo della regolamentazione, anche se in ogni paese tale lotta assunse tinte specifiche. In Germania ad esempio, si formò un gruppo di donne che oltre ad accusare il governo di farsi complice dello sfruttamento della prostituzione, portò avanti una vera e propria lotta di repressione morale della prostituzione stessa. Relativamente all'aborto invece le femministe ottocentesche erano schierate pressoché tutte contro questa pratica e lottavano perché venisse messa fuori legge.

Esse sostenevano che l'aborto
facesse parte dello sfruttamento sessuale e del degrado delle donne, così come la contraccezione, altra pratica messa al bando. Secondo Judith Walkowitz (Sessualità pericolose) le cause di queste prese di posizione che si ribalteranno completamente nel secolo seguente, sono da individuare nella diffidenza delle femministe verso i medici accusati di esercitare un'autorità illegittima sul corpo della donna. 
D'altra parte le stesse femministe erano contrarie alla separazione della sessualità femminile dalla riproduzione, convinte che la contraccezione e l'aborto rendessero le donne impure, simili a prostitute e vulnerabili alle richieste maschili. Anche il gruppo di neo-malthusiane, che si costituì in Europa alla fine del secolo, se considerava la contraccezione un metodo onorevole, continuava a ritenere invece l'aborto una faccenda da bassifondi. In quegli anni uno dei centri più importanti per lo sviluppo del femminismo europeo, era Zurigo. Grazie alla sua posizione strategica al centro dell'Europa e a causa del fatto che la sua università, comprese le facoltà tecniche, era aperta alle donne, non erano poche coloro che lasciavano il proprio paese, spesso clandestinamente per approdare in Svizzera. Vi troviamo tra le altre Anna Kuliscioff, Clara Zetkin, Vera Figner, Louise Kautski, Aleksandra Kollontaj e Rosa Luxemburg che arrivò dalla Polonia nel 1889 nascosta in un carro di fieno. Franziska Tiburtius racconta: 'I capelli tagliati corti, gli enormi occhiali blu, il rotondo e lucido matelot, i vestiti tanto corti da sembrare fodere di ombrelli, la sigaretta, l'atteggiamento cupo e altezzoso, tutti questi divennero i dati caratteristici della studentessa'. 

Caratteristico aspetto del femminismo zurighese fu la rivendicazione del 'libero amore' e la lotta contro il matrimonio considerato borghese. Sempre nella seconda metà del XIX secolo bisogna far risalire la storia della lotta per il diritto di voto alle donne. Il primo convegno sui diritti delle donne si ebbe nel 1848 a Seneca Falls, in America, vicino a New York. Vi si radunarono 300 persone e alla fine fu redatto ad opera di alcune suffragiste come Susan B. Antony, Elizaberth Cady Stanton e Lucy Stone, una Declaration of sentiments dove si sanciva l'uguaglianza di diritti fra i sessi e ci si proponeva la lotta per il voto. Interessante è notare che in occasione di questo congresso fu sancito, forse per la prima volta, la fine del monopolio maschile della predicazione dal pulpito nelle chiese cristiane. 
In America, intorno al 1869, il movimento suffragista si articolava in due organizzazioni: la "National Women Suffrage Association" e l'"American Women Suffrage Association". Entrambi impegnati per lo stesso scopo, il suffragio, si proponevano però di raggiungerlo con metodi diversi. Il primo, più moderato e riformista, agiva soprattutto nella zona di Boston e di esso ne fu il portavoce il foglio Women's Journal; il secondo, più aggressivo e radicale, si muoveva soprattutto nell'area di New York. 
Solo nel 1890 le due si fusero nell'"American National Women Suffrage Association" a cui si unirono anche piccoli gruppi femminili e religiosi. In Inghilterra è nel 1860 che si forma la prima "Associazione per il suffragio alle donne" a cui aderirono Emily Davies, le sorelle Garrett e Barbara Bodichon. 
Nel 1866 affidarono al deputato e filosofo John Stuart Mill una petizione da presentare alla Camera dei Comuni che però non venne approvata dal primo ministro Gladstone. Solo coll'inizio del nuovo secolo il movimento prese impeto e violenza. Il primo stato nel mondo ad ottenere il suffragio allargato alle donne, anche grazie all'appoggio di gruppi di ispirazione religiosa, fu, nel 1893, la Nuova Zelanda. 

In Italia già nel 1863, su proposta dell'onorevole Peruzzi, la Camera dei deputati disputò la questione giuridica delle donne; e ancora avvenne nel 1871, su proposta dell'onorevole Lanza, nel '76 grazie a Nicotera e nell'80 e '82 fu la volta di Depretis, anche se il movimento suffragista italiano non ebbe mai la forza e la determinazione di quello inglese o americano.

di PAOLA MOCCHI   - di Storia in Network )

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Storia delle donne. L'Ottocento, di Duby-Perrot - ed. Laterza
Le donne entrano in scena, di Annie Goldmann - ed Giunti
I salotti di cultura nell'Italia dell'800, di M. I. Palazzolo - ed. Franco Angeli
Esistere come donna, Catalogo della mostra di Palazzo Reale - Milano 1983

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di

 
 

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DA LEGGERE 

DA LEGGERE  DAL MEDIOEVO CON DOLORE > >


 

vai anche sul 1972, L'ALBA  delle LIBERAZIONE FEMMINILE

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